La lava, i palmenti
È come la neve, soffice e compatta, ma è nera. È la sabbia del vulcano che in questi giorni di forti eruzioni si è depositata ovunque, e gli abitanti dell’Etna sono tutti in giro con ramazze e badili a sgomberare strade, terrazze e balconi. Siamo a Milo, sul versante orientale del vulcano, a circa 800 metri d’altitudine, e nuvole basse e grigie non lasciano presagire nulla di buono. E grigio-neri sono i muretti a secco che ci guidano lungo i tornanti, fino al cortile dell’azienda I Vigneri, dove troviamo Salvo Foti, anche lui intento a spazzare il bel pavimento di pietre laviche del palmento. Ci accoglie con cortesia, un sorriso ironico e l’aria leggermente svagata. Ha un bel profilo, ricorda le teste in marmo dei filosofi greci esposte nei musei.
Nel palmento, pareti e pavimenti sembrano figli di un’unica colata di lava. Per oltre duemila anni queste sono state le costruzioni che ospitavano la produzione del vino sull’Etna. Venivano costruiti interamente con materiale lavico, su più livelli così da utilizzare la gravità per gli spostamenti dell’uva prima e del vino poi. L’uva, pigiata nel primo livello con i piedi, cadeva nel secondo livello per le macerazioni e le fermentazioni. Finite queste, il vino ottenuto passava al terzo livello per la conservazione.
Oggi i palmenti sono stati distrutti, oppure sono diventati case private, bed&breakfast, ristoranti. L’ultimo rimasto in attività è il palmento Caselle, quello di Salvo, che afferma sconsolato: “quando distruggi qualcosa, è persa per sempre, se non c’è qualcuno che la sappia ricostruire. Qui tutto il sapere dei vecchi è andato perduto, lo Stato li ha messi in pensione, impedendo che avvenisse un passaggio di consegne con i giovani”.
Vigne senza tempo
Per tutta la vita Salvo è andato controcorrente, cercando di resistere ai cambiamenti che la modernità faceva apparire ineluttabili. E così, mentre tutti sostituivano i vitigni autoctoni con quelli internazionali, i pali di castagno con quelli di cemento, o i lacci delle legature organici con quelli di plastica, lui ha tenuto duro. E oggi le sue vigne di carricante, minnella e nerello mascalese hanno l’aspetto di cento anni fa.
Vigne senza tempo, perché non vengono mai espiantate per crearne di nuove, ma le piante che muoiono vengono sostituite singolarmente, così che la popolazione della vigna presenta viti giovani insieme a piante che raggiungono i duecento anni.
I vigneti di Milo godono del fatto che questa sia la zona dell’Etna in cui ricadono più sabbie vulcaniche, che arricchiscono il suolo di minerali che arrivano dal centro della terra, creando un suolo che si rigenera costantemente, in un’evoluzione geologica unica al mondo. “È un grande caos, geologico e climatologico, che nel tempo genera armonia. È una ricchezza di cui ci gioviamo, e che vogliamo trasmettere ai nostri vini. Ci sono aspetti dei vini vulcanici che non sappiamo valutare scientificamente, ma che esistono e non vanno sottovalutati. È una vitalità figlia dell’energia primordiale di questo ambiente, e che si fa sentire anche nei vini”.
L'armonia del luogo e dei suoi frutti
Salvo conduce le sue vigne cercando di assecondare le specifiche inclinazioni dei vitigni, quindi non tutte sono a Milo. Qui ci sono le uve a bacca bianca, carricante e minnella, che approfittano delle condizioni climatiche particolari della zona (e mentre Salvo racconta del clima, fuori si sta scatenando una bufera). Solo qui si può fare l’Etna Bianco Superiore. Il nerello mascalese invece ha bisogno di caldo, e viene coltivato nel versante Nord, a 580 metri. C’è poi un vigneto molto particolare, a 1300 metri, nella parte Nord-Ovest del vulcano. Scoperto per caso durante una passeggiata in una foresta di lecci, è molto piccolo (mezzo ettaro), molto vecchio e composto da una decina di vitigni a bacca sia bianca che rossa. L’armonia del luogo ha fatto sì che Salvo decidesse di vinificare assieme tutte le uve, per creare un vino rosato davvero unico, il Vinudilice (da Quercus ilex, il leccio). Le condizioni estreme in cui crescono le uve portano la vendemmia fino ai primi di novembre, e a volte la gradazione rimane bassa, e ne viene ricavato uno spumante, “a seconda dell’annata è il vigneto che decide se vuole essere spumantizzato o vuole essere un vino fermo. È un vino che ha una grande forza energetica, può piacere o non piacere, ma è un vino che dà molta emozione”.
Gli interventi sui vini in cantina sono minimi, si cerca di mantenere la tipicità del territorio, la carica vitale del vulcano. Ogni parcella dà un vino specifico, e ogni scelta viene compiuta considerando non solo il vitigno ma anche l’età media del vigneto e l’andamento dell’annata. Tutte scelte che Salvo oggi può fare grazie alla sua lunga esperienza in questi luoghi: “Siamo in una situazione pedo-climatica particolare, non ci sono molti posti al mondo dove si fa vino su di un vulcano attivo, per di più con vitigni autoctoni. Solo recentemente le nostre uve sono stati impiantate altrove; ma sono state selezionate in questo territorio, su queste sabbie vulcaniche e in questo clima quasi continentale, ed è qui che esprimono al meglio le loro caratteristiche”.
Vini umani
All’inizio questi vini hanno incontrato difficoltà ad essere apprezzati, troppo diversi da quelli convenzionali allora in voga. Senza perdersi d’animo, Salvo ha tentato allora la strada dei mercati esteri, maggiormente ricettivi alle innovazioni. Questo gli ha permesso di resistere, di accrescere le sue esperienze e oggi che tutti apprezzano il valore dei vini etnei è lui a essere unanimemente riconosciuto come il capofila di questa scuola enologica.
Salvo ci tiene molto a sottolineare l’impegno profuso per il mantenimento di pratiche antiche nella coltivazione, dall’impianto ad alberello (le viti sono tutte indipendenti, non sostenute da strutture come le spalliere) all’utilizzo di grandi forbici artigianali usate per la potatura, che mi mostra con orgoglio, “è rimasto un solo artigiano a fabbricarle, sono specifiche per i nostri vigneti misti, dove bisogna lavorare piante giovani e tenere ed altre vecchie e legnose”.
E sono il lavoro artigiano, il saper fare, l’importanza di conservare le tradizioni della civiltà vitivinicola etnea a tornare di continuo nelle sue parole. Proprio per questo ha creato l’associazione de I Vigneri, per non disperdere le conoscenze accumulate da chi sull’Etna ci lavora da secoli. È costituita da cinque aziende che oltre alle viti coltivano alberi da frutto, noccioleti, castagneti, curano i boschi, mantengono in ordine i terrazzamenti e i muretti a secco. Così facendo si arricchisce la biodiversità del territorio, il lavoro viene distribuito nei mesi e si riesce a fidelizzare la manodopera che riesce a lavorare a tempo pieno.
È un progetto di lavoro a lunga scadenza, ma d’altronde chi impianta dei vigneti deve avere una scadenza temporale molto lunga. Come diceva il nonno di Salvo, “quando pensi di piantare una vigna, fai prima un figlio. Perché non sarà il tuo vigneto, sarà il vigneto di tuo figlio”.
E lui è stato fortunato, perché di figli ne ha due, Simone e Andrea, ed entrambi vogliono continuare sulle sue orme.
Salvo ha compreso in tempo che i cambiamenti troppo veloci che stavano travolgendo le sue campagne, la meccanizzazione e il conseguente allontanamento degli uomini dalle vigne, avrebbero comportato la fine di un mondo troppo prezioso perché potesse andare perduto. Da questa intuizione nasce la sua filosofia produttiva, che riassume così, in poche parole in cui senti vibrare un sapere antico: “I nostri vini, prima di essere naturali, prima di essere buoni, prima di ogni altra cosa, devono essere dei vini umani. Quando produci un vino umano significa che lo fai nel rispetto dell’ambiente e delle persone, ed è l’unica maniera per vivere in armonia con chi lavora con noi e con la natura che ci circonda”.