Il sole di Menfi
Menfi, contrada Belicello, sei e trenta del mattino. Dal buio emergono lentamente i colori, i verdi delle vigne, il giallo delle stoppie, e sullo sfondo l’azzurro del mare. Mentre scendiamo verso valle incrociamo solo trattori con carri, i fari ancora accesi, che si recano nelle vigne per la vendemmia. L’appuntamento con Marilena Barbera è nella vigna Dietro le case, fatta di lunghi e rigogliosi filari di inzolia. Lei ancora non c’è, e allora ci mettiamo a riprendere gli operai, che filano via veloci nella raccolta, approfittando del fresco del mattino. Dura poco, però, e appena il sole ci raggiunge fa subito sentire la sua forza. Col sole arriva anche Marilena; maglietta larga e nera, pantaloni mimetici, scarpe da lavoro e una fascia a tenere i capelli. Praticamente, una Tartaruga Ninja pronta al combattimento. Ma niente botte, è affettuosa come sempre e prodiga di sorrisi per tutti. È felice di essere lì, nella sua vigna preferita, e di esserlo proprio in questo momento, in vendemmia.
«Mio nonno ricevette queste terre come dote per le nozze, e impiantò viti ed ulivi. Per le vigne utilizzò i tralci del vicino, materiale genetico che si tramanda in questi luoghi da quasi 3.000 anni. È la selezione massale, operazione con cui il vignaiolo sceglie gli individui più belli, più sani, che danno l’uva migliore, e li utilizza per impiantare la nuova vigna. Mio padre rinnovò poi il vigneto nel 1970, sempre con la stessa tecnica»
L'Inzolia
Marilena ha una vera passione per l’inzolia, «è il mio grande amore, subito dopo viene mio marito», per lei è il vitigno che più di tutti rappresenta questi luoghi.
«È la più bella varietà d’uva della zona. Oggi beviamo grandi vini siciliani, ma l’inzolia appartiene a Menfi, e solo qui viene in questo modo. È un vitigno tipico, pochissimo conosciuto e pochissimo valorizzato dai produttori stessi. Non la amano e non la valorizzano, mentre secondo me è una delle uve più belle del mediterraneo. Arriva dalla Grecia e si ambienta in Sicilia, sulle isole della Toscana, l’Isola del Giglio e l’Elba. L’ansonica non è altro che l’inzolia. Sulle coste spagnole diventa airén, su quelle della Francia meridionale diventa claret. La sua grande capacità mimetica la porta anche in ambienti a lei meno favorevoli, anche per questo resiste da tremila anni, ma solo al mare riesce a restituire in maniera vibrante il carattere del territorio. È l’unico vitigno che vive nella sabbia, sulle dune delle spiagge, bevendo con le radici l’acqua di mare, e produce caratteristiche speciali. Innanzitutto una grande sapidità, perché qui il sale è ovunque, nel terreno, nell’acqua, nell’aria che si respira, e si deposita sulle foglie rendendole quasi impermeabili alle malattie fungine. E dà sapore al frutto; il chicco di inzolia, dolcissimo, qui diventa dolcissimo e salato. I vini sviluppano allora una sapidità che li rende estremamente identitari. Altri vitigni si adattano a queste condizioni, come il catarratto, il grecanico o il perricone, ma l’inzolia è l’unico che riesce a raggiungere certe vette. Ha inoltre radici lunghissime, che le permettono di superare senza problemi un’estate calda e siccitosa come questa 2021». Prende un tralcio dalla pianta più vicina e ce lo mostra, «Guarda, gli apici sono vivi, le foglie ben distese, e l’uva è perfettamente idratata.
Qui il sale è ovunque, nel terreno, nell’acqua, nell’aria che si respira, e si deposita sulle foglie
È una pianta che si manifesta con diverse forme, io ne ho almeno quattro tipi, e ne abbiamo individuato un quinto, inzolia cappuccio. Era in un piccolo vigneto, centocinquanta piante che il proprietario voleva estirpare. Le ho prese con l’escavatore e le abbiamo ripiantate qui; centoquarantatre hanno riattecchito, e oggi quattro di queste hanno l’uva. Essere riuscita a proteggere il genotipo di un’uva ormai rara è una gioia incredibile».
Intanto il primo carro è stato riempito, migliaia di acini brillano come biglie dorate, ed è pronto a rientrare in cantina per la pigiatura. Rientriamo anche noi, ed il fresco che ci accoglie è un piacere vero e duraturo, come togliersi gli scarponi dopo una giornata di sci. Marilena non perde un attimo, sale su di un paio di tini in acciaio assieme a un cantiniere e comincia a fare prelievi e assaggi dalle vasche. Passa quindi a effettuare il bâtonnage del vino nelle barrique, saltellando da una all’altra con invidiabile equilibrio. Al termine di ogni operazione lava e asciuga tutto con grande meticolosità, «è assolutamente fondamentale».
Il Mediterraneo
Per pausa andiamo in un baretto in riva al mare, e lì veramente capiamo dove siamo.
Nel mezzo del Mediterraneo.
Davanti a noi un mare che sembra infinito, ridente di riflessi, un sole che acceca in un cielo blu cobalto. Non è difficile immaginare le prime navi greche pronte allo sbarco, con a bordo le uve di roditis, le antenate di quelle viste oggi in vigna. Fondarono Selinunte, città che raggiunse i centomila abitanti, più della stessa Atene, e le campagne di Menfi dovettero provvedere al suo sostentamento.
Un po' di storia
Per continuare l’intervista rientriamo in azienda, sempre benedicendo l’inventore dell’aria condizionata. Quello che ci intriga sono le scelte di Marilena, la sua conversione in vignaiola, mentre il percorso che aveva delineato per sé era del tutto diverso.
«All’età di 12 anni sono andata via di qui. La Sicilia degli anni ’80 non era un bel posto dove vivere, erano gli anni della guerra di mafia e si sparava in mezzo alle strade. La scelta di mio padre — scelta che è stata la mia fortuna, ma che ho condiviso solo più tardi — è stata di mandarmi in collegio a Firenze. Finito il liceo, decisi di restare fuori anche per l’università. In quel momento sarei andata ovunque nel mondo tranne che in Sicilia. Ma era una scelta fatta con la testa, non con il cuore. Così, a un certo punto, non so nemmeno bene perché, a 26 anni mi è scattata una cosa dentro che mi ha fatto capire che quello che avevo lasciato aveva esattamente tutto ciò che mi serviva per essere felice. E sono tornata».
Una volta a casa, Marilena trova il padre con i suoi progetti, il sogno di fare vino non solo da bere con gli amici, ma per fare impresa, perché avesse un senso economico. Era il 96-97, cominciarono le prime vinificazioni in garage, usando le vecchie botti del nonno, con produzioni davvero minime. «Ma quando cominci a fare il vino, non sei tu che fai il vino, è il vino che sceglie te per essere fatto, e se ti sceglie non puoi fare a meno di continuare a farlo. Cominciammo con 500 bottiglie, che sono diventate 1000, poi 1500, poi 5000, poi ci abbiamo messo un’etichetta, poi abbiamo registrato un marchio, poi il garage non bastava più, e mio padre ha voluto un posto vero per fare il vino. Poi mio padre è mancato, e lì ho deciso che avrei fatto vino nella vita. Se ero stata capace di laurearmi in Diritto Internazionale, sostenere il concorso per la carriera diplomatica e abilitarmi come dottore commercialista, non potevo studiare viticoltura?»
Ora sono 15 anni che faccio vino da sola, e non me ne pentirò mai, e la cosa più bella che mi sia capitata nella vita.
Vini come vogliono essere fatti
Marilena parla del vino come di un interlocutore autonomo, capace di intendere e di volere, che indirizza le sue scelte e detta le regole del gioco.
«Faccio i vini che mi piacciono, che hanno senso per me, e che hanno senso per il posto dove nascono. Faccio vini per come loro vogliono essere fatti, per come sono le vigne. Quindi vini che vivono di mare, vini di sole e di luce. Qui ci sono 320 giorni di sole l’anno, c’è vento, c’è sale, e io spero di preservare nel vino quello che costituisce l’uva. Faccio vini che cambiano, sia nel tempo che da una vendemmia all’altra, perché sono vini che seguono il respiro e l’andamento della terra. Seguono le stagioni, le annate calde o fredde, bevendoli si sente se ha piovuto o meno, se è stata un’annata ventosa.
I vini sono come loro vogliono essere, come mi si presentano nell’uva che raccolgo.
Un esempio sono le macerazioni. Non faccio le macerazioni ad ogni costo, ma io faccio il vino con l’uva, e l’uva non è solo il suo succo, ma si compone di tante parti; c’è il raspo, la buccia, il seme, la polpa, il succo. E tutto serve per fare il vino, e quando mi dice che vuole essere fatto ha bisogno anche della buccia, quando questa è adatta per fare il vino. Quindi la macerazione, che può essere lunga o breve, a temperatura più o meno bassa, o senza controllo di temperatura, o in materiali diversi, è solo uno dei modi in cui l’uva diventa vino. E se è necessario che ci sia la buccia, io la buccia ce la metto. Nascono così le mie macerazioni, che non sono né obbligatorie, né orange, né leggere né pesanti, ma giusto quello di cui c’è bisogno per far nascere il vino da quell’uva lì».
Le uve di Menfi
I primi riconoscimenti del mercato per i vini di Menfi sono arrivati circa quaranta anni fa. Prima si vendevano le uve per il Marsala, ed erano tutte a bacca bianca: inzolia, catarratto, grecanico, grillo e zibibbo.
Con la nascita della cantina sociale, di cui la famiglia Barbera è tra le fondatrici, un centinaio di grandi cantine cominciarono le sperimentazioni con uve rosse, e aprirono ai vitigni internazionali, quali chardonnay, merlot e cabernet sauvignon.
E furono proprio queste varietà ad attirare le attenzioni del mercato, nonostante questa zona avesse già 2500 anni di storia. Gli ultimi 10/15 anni hanno visto l’affermazione di nuove idee, e quasi tutti i produttori hanno preso una strada diversa. Anche Marilena fa la sua parte: «Ho iniziato un percorso di riscoperta di vecchie varietà, e anche dei metodi di coltivazione e di vinificazione tradizionali, come si facevano prima che arrivasse la modernità in questa zona.
C’è stata la riscoperta di vitigni come l’inzolia, il perricone, il grecanico, il catarratto, lo zibibbo, stiamo attraversando una fase più matura del territorio, dove si riscopre quanto di buono è esistito prima della modernità, per declinare questi valori tradizionali secondo un linguaggio moderno per questi luoghi, ma molto arcaico, viscerale, molto intimo. Una riappropriazione della propria identità, ed è il fenomeno più interessante degli ultimi 15 anni, qui a Menfi.
Altra uva meravigliosa, con cui spero di lavorare presto, è il grecanico dorato, vitigno ancora più sconosciuto, e misconosciuto, dell’inzolia. Sto facendo esperimenti con lo zibibbo, qui vietato perché può essere coltivato solo a Trapani, misteri della fede e della burocrazia. È un’uva che, come tutte le cose che vengono dall’antichità, hanno un senso; può essere mangiata, cucinata e ci si può fare anche il vino.
Menfi è un posto per bianchi. Viene bene tutto, ma è un posto per vitigni bianchi. Tra i vitigni a bacca rossa con cui lavoro oggi c’è l’alicante, che deriva dalla garnacha, portata qui dagli spagnoli. È il mio modo di tenere viva la storia.”
Le donne del vino
Un tema spesso emerge è il ruolo delle donne nel mondo del vino. Su questo, Marilena ha le idee chiare. E molto affilate: «Essere una donna che fa vino è come essere un americano o un finlandese che fa vino. Trovo non ci sia assolutamente una differenza di genere, in nessun mestiere; sono persone che fanno un lavoro. Ci sono invece società in cui per alcune persone scegliere di fare un lavoro è più difficile, e in Italia essere una donna e scegliere di lavorare è un problema.
Vedere una donna a capo della propria azienda per molti è un problema, indipendentemente che faccia vino o tondini di ferro. Ma nel vino non è diverso da quello che succede in qualunque altro settore economico. Non è un problema delle donne, è un problema della cultura del nostro Paese. Un Paese in cui le donne hanno enormi difficoltà a veder riconosciuto il loro valore, a veder pagato il loro lavoro quanto quello degli uomini. Ma non è un problema delle donne del vino, è un problema generale, e che si risolverà quando le donne smetteranno di chiedere e si prenderanno quanto gli spetta, il riconoscimento del valore del proprio lavoro».
Perché fare vino
Un ultimo dubbio, un’ultima domanda che ci viene spontanea dopo aver visto la giornata-tipo di Marilena: perché fare vino, perché scegliere un mestiere così faticoso, così pieno di imprevisti, quando ci sarebbero state le possibilità di una vita certamente più comoda?
Il vino diventa parte del tuo essere, più che il vino la vigna, la terra, l’agricoltura, il fatto di custodire un microcosmo di biodiversità che ha bisogno anche di te per essere quello che è.
«Non è che la mattina ti svegli e scegli di fare il vino. Il vino diventa parte del tuo essere, più che il vino la vigna, la terra, l’agricoltura, il fatto di custodire un microcosmo di biodiversità che ha bisogno anche di te per essere quello che è. La terra ti dà una sensazione di radicamento fortissima, di appartenenza. E poi il vino è divertente perché c’è anche l’alcol, inutile girarci intorno. Fermentare l’uva ed essere parte di questo processo quasi miracoloso, e il vino infatti entra nelle religioni per la sua parte spirituale e ultra-terrena, è una cosa di cui a un certo punto non puoi fare a meno. Non è una cosa che scegli di fare, è una cosa che sceglie te, e tu ne diventi parte, molto semplicemente».