Il luogo, prima di tutto
Ma questo è il pomeriggio. La giornata è iniziata già da alcune ore, da una visita nei bellissimi, scoscesi vigneti, con viti anche di cinquant’anni. Fai alcuni passi lungo il crinale, guardi in basso, e quasi fatichi a vedere la continuazione delle vigne perché non ti aspetti che si buttino giù con queste pendenze. “Questa è la zona più ripida dell’Oltrepò, già poco lontano le colline sono più dolci. Qui è proprio dove iniziano gli Appennini”. Una zona ricca di vento, con un’ottima insolazione e un’esposizione a sud / sud-ovest, con terreni di formazione glaciale e di origine marina: l’affioramento di una parte di terreno mostra come sia formato da piccoli ciottoli di fiume, tondi.
Quasi tutti impiantati a rittocchino (cioè con i filari che seguono le linee di pendenza delle colline) per aumentare l’insolazione, quelli di Andrea sono vigneti verdissimi, fioriti, pieni di fiori spontanei a punteggiare di rosso e giallo l’erba che cresce tra i filari e a dimostrare a colpo d’occhio la cura e l’attenzione per la natura, la disposizione ad attendere i suoi tempi, mentre poco lontano vigne di altri produttori raccontano una storia diversa, con il terreno spoglio di vegetazione.
Attraversiamo filari di croatina, di vespolina, di pinot nero, per cui probabilmente l’Oltrepò è la zona più vocata in Italia. Eppure, sia per i metodi classici sia per la vinificazione in rosso, sembra spesso essere dimenticata.
Lo spartiacque sono gli anni Settanta, dice Andrea: da lì le altre grandi zone vitivinicole d’Italia iniziano a crescere, mentre l’Oltrepò sembra fare dei passi incerti: “ho visto il seminativo diventare vigneto, e vigne vocate trasformate in boschi”.
“Se finisci in mano a un mercato dove non c’è spazio per il concetto di cru, ma dove punti solo a ottimizzare rese e costi, perché il vino diventa una commodity, finisci a sacrificare la qualità”.
Non è un discorso contro l’industria, che fa il suo lavoro ed è giusto così, ma è una riflessione su quello che è mancato, un gruppo di agricoltori che abbia saputo difendere il cru e proteggere e far crescere il vino della zona, come è stato per altre parti d’Italia.
“Io sono il primo e ultimo di famiglia a fare il vino, e l’ho scelto per passione. Oggi va di moda fare il vino, negli anni Ottanta no. E io mi ci sono avvicinato proprio in quegli anni, con poche idee, confuse, in un periodo anche complicato in Oltrepò. In quegli anni rimasi folgorato andando in enoteca a Bobbio, con ragazzi più grandi, nel giorno di chiusura, a bere alcuni dei grandi vini italiani e non solo”.
Ci sembra di vederle quelle serate, in cui ogni nuova bottiglia era un confine che veniva oltrepassato.
“Facevo un po’ di tutto, erano gli anni in cui si vedevano tanti fare la processione per andare a Milano carichi di damigiane. Il problema è che in Oltrepò non si è capito un passaggio fondamentale: che dal vendere le damigiane, dal vendere un vino semplice, si doveva passare a fare il vino in bottiglia. Una persona lungimirante, il Duca Antonio Denari, presidente della cantina sociale La Versa, diceva provocatoriamente di spaccare tutte le damigiane e iniziare a mettere tutto in bottiglia – aveva capito che bisognava prepararsi a un mondo diverso”. Altre zone d’Italia l’hanno capito, come ci spiegava Andrea poco prima, l’Oltrepò purtroppo no – ed ecco che una delle culle dell’enologia italiana, una delle zone più vocate per la coltivazione di grandi vitigni, è rimasta al palo. “Una cosa che mi dispiace è che ancora oggi personaggi come il Duca Denari, il conte Giorgi di Vistarino, Giorgio Odero di Frecciarossa, che hanno scritto l’enologia italiana, non hanno una via dedicata a loro qui in Oltrepò”.
La, o le, sostenibilità
Gli chiediamo allora come vorrebbe vedere l’Oltrepò, e la risposta è che spera in una nuova prospettiva, ma fatica a vederla in questo momento. “Ci sono delle aziende che secondo me fanno degli ottimi vini, ma rimangono schiacciate dai numeri, dalle cantine sociali che di sociale hanno poco, perché pagano pochissimo le uve. Quando non paghi la gente crei delle vere forme di schiavitù, a tutti i livelli: c’è anche la schiavitù con la partita iva, il produttore che conferisce le uve a prezzi bassissimi. Finisce che non solo la gente se ne va (pochissimi ragazzi rimangono a lavorare e scelgono di lavorare nel vino) ma anche se rimane è sempre più difficile trovare un prodotto etico, buono e pulito”.
È il concetto di sostenibilità economica, che ci è tanto caro: andare oltre alla sensibilità ambientale, che certo è necessaria, ma pensare anche a quella sociale, alle giuste condizioni di lavoro, al giusto prezzo con cui pagare i propri collaboratori, con cui pagare le uve e, infine, il giusto prezzo del vino che acquistiamo. Questa svalutazione attraversa le parole di Andrea in più momenti, come uno dei temi a lui più cari e uno di quelli che più ha avuto un impatto sull’Oltrepò.
“Viene tanto usata la parola sostenibilità, ma a me piace parlare semplicemente di intelligenza. Proteggere il territorio, curare le tue viti, il terreno, le persone che lavorano con te non è fare qualcosa di sostenibile, è semplicemente fare qualcosa di intelligente”.
Viene in mente quando poche ore prima, tra i vigneti, ci ha presentato un suo collaboratore, “bravissimo”, e si è raccomandato che prima di mettersi a lavorare indossasse gli occhiali di protezione, perché “la prima cosa che mi interessa è che lavorino tutti in sicurezza”.
E forse il tratto più evidente della giornata è proprio questo rispetto che si respira parlando con Andrea. “Avere rispetto per i colleghi, per i collaboratori e per le persone che ci girano attorno vuol dire avere rispetto di se stessi: è un sistema”. Anche per questo riempie il suo racconto di nomi di altri produttori della zona, rossisti e spumantisti, grandi e piccoli, tanto da chiederci se vogliamo assaggiare un metodo classico che gli piace, o da scovare e stappare vecchie annate del suo vicino di vigna, Franco, quando arriva e si unisce al nostro tavolo. Quello che percepiamo è che Andrea è quasi un portavoce, un ambasciatore dell’Oltrepò, e qualcuno che si spende con immensa generosità per questo territorio e la sua gente.
Ci viene in mente Salvo Foti e il suo concetto di vini umani, e soprattutto ci viene in mente un altro nome, che Andrea forse si attende e infatti subito si schernisce.
Lino Maga e l'Oltrepò
È inevitabile infatti, quando si parla di Oltrepò, citare il signor Barbacarlo, Lino Maga, autore di un vino mai uguale a se stesso, diventato una leggenda e amatissimo da Gianni Brera, che l’ha cantato tante volte; un vino che, finito un po’ in ombra, è stato poi riscoperto anche grazie a Walter Massa e Andrea Picchioni. E il nome di Andrea è stato affiancato da tanti a quello di Lino Maga, soprattutto dopo che questi è venuto a mancare all’inizio di quest’anno. Ma lui non vuole sentire parlare di paragoni: “Lino ha avuto l’intelligenza di non piegarsi alle mode e di capire che il vino non può e non deve farlo, anche se è quello che sempre più succede. Ma per me Lino è stato un amico, prima ancora che un esempio purtroppo non seguito qui in Oltrepò. Ricordo le mille volte in cui ci siamo trovati a parlare al tavolo in enoteca, e una volta in particolare, che eravamo lì con un giornalista, e lui versò al giornalista una bottiglia aperta da qualche giorno, ma quando feci per versarmela anch’io mi fermò dicendomi ‘no, aspetta, per te stappo quella nuova’. Ecco, in fondo il rapporto tra Lino e me era questo, era l’affetto di dire che no, per te stappo la bottiglia nuova”.
Le mescolanze, il Buttafuoco
Ritorniamo per qualche minuto a parlare del tema del nostro mese, le mescolanze, per arrivare a parlare di uno dei grandi vini di Oltrepò. Avevamo già visto in mattinata come in alcuni vigneti di Andrea convivano anche uve diverse, a dimostrare una mescolanza che parte già in vigna. La mescolanza la ritroviamo nel vino che abbiamo ora nel bicchiere, il Buttafuoco, questo incontro tutto locale di croatina, barbera e ughetta di Solinga.
“Girano tante storie sul nome del Buttafuoco: dalla poesia di Carlo Porta a un simbolo navale. L’origine più probabile in realtà è un’altra: qui vicino c’è la Vigna Buttafuoco, sabbia e sassi, una conca esposta a sud, nella frazione Solenga, e non lontano c’è la frazione Montebruciato: i nomi dei luoghi raccontano del grande caldo. E anche se la vigna è nel territorio di Stradella, questo è storicamente il vino di Canneto Pavese, perché era il paese più vicino e i contadini, quando si spostava tutto con i buoi, andavano lì”.
E intanto Andrea mesce i suoi Buttafuoco, il Solinghino, più diretto, immediato, e la Riserva, lo splendido Bricco Riva Bianca, “un vino austero”, me lo descrive Italo, il nostro responsabile della selezione e dei rapporti con le cantine. E sì, è davvero un vino austero, che non significa scontroso, anzi: un tripudio di fiori secchi e frutti di bosco, a cui seguono tabacco e cacao, che ritroviamo anche al gusto. Un vino di quelli che si possono davvero dimenticare in cantina, un bambino che potrà solo crescere e migliorare nei prossimi anni, ma che già ora è splendido. E se il tempo sarà generoso con questo vino, il nostro si è concluso, anche se rimarremmo ancora a lungo a questo tavolo, a raccontare e farci raccontare storie, a ridere e discutere, perché in fondo il vino è soprattutto questo, la voglia di conoscere e di incontrarsi. E forse sì, davvero l’Oltrepò prima di un luogo è un sentimento.