Tarda mattina di una giornata di fine maggio. Scendiamo in uno dei vigneti di Stefano, e la prima cosa che notiamo sono le vigne in cui le piante sono tenute insieme nella maniera tradizionale della valle, non da fili ma da sottili liste di larice: una pianta flessibile, dalla fibra lunga, che resiste alle intemperie e che non si spezza, e di cui c’è grande abbondanza nella zona. Forse un po’ devi essere come lui, per poter coltivare qui. Il terreno è molto sassoso: sono scisti, che si sgretolano in lamelle brillanti. “La matrice è quella, la poca terra che c’è è molto sciolta, poco profonda, in alcune zone ci sono massi affioranti, a cui puoi solo girare attorno”, e indica un grande masso a pochi metri di distanza.
Più che un vigneto questo piccolo fazzoletto di terra sembra un teatro, con la parete boscosa della montagna che sale ripida, punteggiata di piccoli terrazzamenti in gran parte abbandonati, a fare da scenario. È un piccolo labirinto costruito su più terrazzamenti, con i muretti a secco a segnarla, terrazzamenti inevitabili per rendere coltivabili queste pendenze. E come abbiamo già visto in tante vigne, l’erba cresce alta tra i filari, rendendo il verde il colore dominante. Non ci sono tanti insetti a volare tra i fiori ora, ma solo perché è una giornata molto calda: in altri orari questi filari brulicano di vita.
“La mia preparazione era scolastica, e se penso alle regole insegnate a scuola mi vengono i capelli bianchi. Quando ho studiato si diceva che la prima cosa da fare è dare due passate di diserbante, così radi tutto al suolo e parti da zero. Poi l’idea è di aggiungere sacchi di sostanze per ritornare all’equilibrio che vuoi, e da lì parti con i diserbi sottofila, eccetera”. Non sono sbagliati i libri ovviamente, il libro deve spiegare qualcosa di classico, standard, facilmente applicabile. La cosa importante è che però si può fare anche in altri modi, sia nella parte agronomica che in cantina.
Nel mio percorso sono partito dall’agricoltura convenzionale, poi ho intuito che si potesse fare diversamente, ho provato a farlo e ho visto che funzionava. E quest’idea è maturata conoscendo altri vignaioli, confrontandomi con loro, assaggiando i loro vini.
Come in tutto, per crescere il confronto è fondamentale: solo confrontandoti (mescolandoti, ci verrebbe da dire pensando al nostro tema di maggio) puoi scoprire qualcosa di nuovo, approfondirlo, magari capirne di più e intuire un percorso che ti interessa. “La mia scommessa sarebbe arrivare ad avere un tale equilibrio nel territorio da non aver bisogno di fare alcun trattamento. Ovviamente è un’utopia, ma se un intervento mi porta in quella direzione va bene”.
Ed è una direzione in continuo movimento: “mi sono fatto un’idea di cosa poteva piacere a me, ma è un’idea che considero in evoluzione: non mi sono certo fatto un protocollo di vinificazione che voglio seguire pedissequamente, anche solo a pensarci mi annoio. La bellezza di questo lavoro è anche la ricerca: abbiamo solo una vendemmia all’anno, e se non dedichi almeno una parte delle tue uve tutti gli anni a provare qualcosa di nuovo, a fare almeno un esperimento, è una vendemmia persa”. Una ricerca, un tempo che si misurano in anni, perché “una delle poche cose che ho capito del vino, e soprattutto di un certo tipo di vino, è che ci vuole del tempo, dall’inizio alla fine. Non puoi avere fretta, perché non c’è nulla di rapido”.
Raggiungiamo un vigneto più grande, dove Stefano coltiva molte varietà diverse, e ci si presenta in pochi metri l’evidente differenza tra vitigni diversi, non sempre facile da notare altrove: c’è il traminer, rigoglioso e da controllare attentamente, perché tende a produrre molte foglie e poca uva. Il gamay, quello che qui chiamano carcajrun, che invece fa praticamente tutto da solo, va su dritto verticale, preciso, ordinatissimo, il vignaiolo quasi non dovrebbe toccarlo. Poi l’avanà, che invece è proprio italiano d’animo, cresce un po’ in ogni direzione, indisciplinato.