Il legame con il passato d’altra parte arriva sin dal nome, Armea, un nome preso durante la battaglia di San Martino. “Ci sono delle mappe dove è già indicata, ed era chiamata Armeria, perché pare fosse questo il suo utilizzo. Il nome è stato poi imbastardito in Armìa, e nel tempo è diventato Armea”. La cascina è comprata dai nonni di Giorgio negli anni Settanta, e iniziano a piantare le prime viti a fine anni Novanta, con del Lugana e del rosso. Il percorso però è quello comune a tante aziende, con le uve e il vino da esse prodotto destinato esclusivamente a un uso familiare. Nel 2017 però Giorgio decide di iniziare insieme a Riccardo un percorso diverso, spostarsi dall’artigianalità e iniziare a cercare qualcos’altro.
“La passione era quella di salvaguardare i vigneti vecchi e vedere il risultato che potevano far ottenere. Vedere che riuscivamo a produrre vini di ottima qualità è stato un primo traguardo importante"
"Il passo successivo però è quello che è un po’ l’idea alla base di Armea: il papà di Giorgio dice che lui voleva il Lugana come si faceva una volta. Solo che non è una cosa semplice da proporre al pubblico, perché il Lugana di una volta è un vino austero, molto teso, che ha bisogno di affinamento, mentre molti ora sono abituati a bere un Lugana morbido”. E queste parole lo ritroveremo nel bicchiere meno di un’ora dopo, quando ci si presenteranno davanti tre Lugana: uno dell’annata corrente, uno del 2019 e uno del 2018. Tre vini diversi, con quello più giovane che è piacevolissimo da bere, soprattutto in una giornata così calda, ma è un vero bambino rispetto agli altri, mentre il 2019 è nel momento di massimo fulgore, con note quasi affumicate, quasi di idrocarburo, e un equilibrio magnifico. “Il 2019 è stata l’annata perfetta in questa zona, per tutte le uve: il giusto equilibrio della pianta, la giusta temperatura, un’ottima escursione termica tra giorno e notte, ha piovuto al momento giusto”.
Ma sono tutti ottimi vini, molto verticali, che chiedono di versare un altro bicchiere. È il risultato non solo del lavoro in cantina, ma anche della pianta che si adatta perfettamente al territorio. “In questo territorio il trebbiano prende determinate caratteristiche adattandosi a clima e terreno: sapidità, una buona mineralità data da queste argille, una spiccata acidità e una certa struttura, perché in terreni così pesanti abbiamo vini di corpo, che possono sostenere l’invecchiamento e migliorare nel tempo”. E infatti il Lugana è stato uno dei primi bianchi il cui potenziale di invecchiamento è stato riconosciuto. “D’altra parte anni fa c’erano anche meno tecnologie, quindi si pigiavano molto di più le uve, si estraevano molti più componenti, che magari rendevano il vino più ostico subito, ma che permettevano grandi risultati con il passare degli anni”.