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Piero Cella e Quartomoro, memoria di Sardegna

Un incontro tra due vecchi amici, Piero di Quartomoro e Italo di Vinevo,per parlare di memoria e sperimentazione

Passione e studio alla base di un progetto unico, il Vigneto delle Memorie, volto a salvaguardare l'unicità della Sardegna.

L’incontro tra Piero Cella, mente dietro Quartomoro, la realtà che più sta facendo per preservare e recuperare antichi vitigni sardi, e il nostro Italo Maffei è l’incontro tra due vecchi amici che hanno grande rispetto l’uno per l’altro. Piero non manca occasione di ricordare come fu proprio Italo, diversi anni fa, a metterlo sulla strada di quella che, un passo alla volta, è diventata un’azienda sempre più solida e importante all’interno del panorama enologico italiano. “Proprio ieri siamo arrivati a fare 65mila bottiglie, quella che mi sembrava solo una piccola realtà artigianale sta prendendo piede e struttura”.
1.

Le persone e la passione

Quartomoro è prima di tutto una famiglia: Luciana, la moglie di Piero, da pedagogista è ormai coinvolta in pieno nell’azienda “e mi piace il fatto che in questo piccolo esperimento imprenditoriale i fondatori, padre e madre del progetto, siano riusciti a coinvolgere altre persone che si affiancano via via nel percorso”. Padre e madre nel vero senso della parola, “a partire da Alberto e Violante, i nostri figli – Alberto ormai coinvolto in pieno sia nella parte agricola sia in quella commerciale a solo 23 anni, con un’ottima competenza che deve solo essere condita dall’esperienza. Questa parte sociale, il coinvolgimento anche culturale di altre persone, è la parte che ci tocca di più”.
Non è la prima volta che percepiamo l’inestricabile unione di passione e promozione, di cura e di spinta commerciale – e in fondo questa commistione è non solo fondamentale, ma gratificante.

“La parte promozionale e commerciale, unita alla parte più terra terra legata alla coltivazione, fa e farà la differenza, che porterà sempre più il vino a essere elemento edonistico e complementare con il cibo, qualcosa di godibile e ascoltabile”.

E un altro tassello fondamentale che deve accompagnare la passione è la capacità di studio: non per niente Piero ha studiato con attenzione le varietà sarde prima di poterle vinificare, perché voleva conoscere e capire quelle varietà che nessuno piantava più, convinto che è la conoscenza che permette di lavorare bene. “Forse in questi ultimi tempi mi è proprio mancato il tempo di approfondire ancora di più la parte di studio sulla parte vinicola, ma nel contempo in questi anni siamo arrivati al dunque nel nostro progetto”. Sta infatti nascendo un progetto bellissimo, con cui Piero, Luciana e tutti i collaboratori di Quartomoro raccoglieranno i frutti delle 54 varietà che hanno identificato, facendo microvinificazioni da 5 piante per vitigno, “per essere custodi dei vini di Sardegna nel Vigneto delle Memorie. E saremo a disposizione di chi vorrà piantare queste varietà, sconosciute, difficili anche solo da pronunciare, ma che esistono e continueranno a esistere”.

2.

Piede franco, innesti, esperimenti

Il fatto che il Vigneto delle Memorie sia tutto innestato su vite americana sposta il discorso subito sul valore del piede franco. Pochi vigneti sono franchi di piede in Sardegna: la storia che ci tocca di più è quella di un piccolissimo vigneto di vermentino, appena un ettaro, che Piero ci racconta essere “una promessa, fatta a un padre che purtroppo è venuto a mancare molto presto: lo stiamo curando per poterlo poi trasmettere al figlio”. Per il resto, c’è un vigneto di Carignano, con vigne che hanno quasi cinquant’anni, a piede franco in terreni sabbiosi, e forse una vigna di Bovale.
Esistono tante teoria sugli innesti o sul piede franco. Piero trova che al di là di presunte verità di questo o quell’esperto, “chi ha esperienza percepisce che il piede franco dà qualcosa in più, soprattutto nelle sperimentazioni biologiche o biodinamiche”. Come suggerisce Italo, quando si beve un vino a piede franco viene da pensare che si stia bevendo il vino originario. Che non è un bene o un male, ma è un’interpretazione, uno strumento di lavoro complicato ma soddisfacente, può essere il punto di arrivo di un percorso meditato. Piero d’altronde in tanti casi ha scardinato la tradizione, ha fatto tante cose nuove, tante cose in più rispetto al mondo che lo circondava, rompendo quelle che erano regole precostituite, dimostrando per esempio che i bianchi sardi possono invecchiare e che rossi ritenuti minori, come il Monica, un vino sempre ritenuto complementare, se capìti e attesi sanno diventare grandi (“ancora oggi ci capita di assaggiare un 2010 tappato a corona e regalarci grandi sensazioni. Credo che forse certe cose di enologia vadano riscritte”). In questo il piede franco potrebbe essere un passo ulteriore. Sta tutto – nel vino come nella vita, in fondo – nel mettersi in gioco, nell’aprire delle porte. Niente va dato per scontato.
“Il nostro mondo è in costante evoluzione e involuzione, le contaminazioni con colleghi (di ogni genere, anche commerciali) portano a sperimentare, ma a volte sono sperimentazioni sbagliate. A me piace sperimentare ma con criterio, perché l’obiettivo è che nel bicchiere ci sia qualcosa di voluttuoso e soddisfacente”. Se devono essere contaminazioni, che siano quelle gioiose e un po’ spericolate degli albori di Quartomoro, nel 2010, con tutte microvinificazioni di 600 bottiglie, girando la Sardegna insieme al grande Giampiero Deidda, “che ci ha lasciato così presto, e che è stato il primo produttore di spumante sardo, in epoche non sospette, il metodo sardenoise”.

3.

Il passato, il presente, le contaminazioni

Uno dei vini di Quartomoro a cui siamo più affezionati è la vernaccia sulle bucce, “la forma del vino che si faceva da sempre. La vinificazione tipica delle uve bianche era impostata su una pigiatura che mirava al massimo rendimento, da cui il contatto con la buccia, che permette rendimento maggiore e maggiore estrazione”. La breve macerazione che fa Quartomoro, molto leggera e di 2-3 giorni, non diventa invasiva, non condiziona moltissimo neanche il colore, ma in tutti i macerati “facciamo lavorare i lieviti insieme a tutto il patrimonio che è attorno alla polpa. Questo ci porta ad avere un vino più ricco, anche più difficile, quasi un rosso all’interno di un bianco, con meno aromi fruttati. Questo vino, originario della Sardegna centrale, tra Gallura e Barbagia, era un vino unico, davvero rosso e bianco al tempo stesso. E noi abbiamo voluto riprendere proprio questo, quella vernaccia che veniva prodotta dai contadini con una struttura quasi tannica che dona anche longevità. E sono molto gratificato perché questo piccolo vino nel territorio di Oristano sta prendendo piede anche tra i viticoltori”. E in fondo alla vernaccia mancava ormai questa dimensione da vino quotidiano, che era il modo di intendere il vino una volta e che era andato un po’ perduto.
“La vernaccia, fino all’arrivo dei vermentini di Gallura, era il vino sardo, la vernaccina, venduta in damigiana e versata nei bicchieri degli avventori dei bar, servita con un piattino di uova sode o di pesce essiccato, di acciughe”. Quella vernaccina protetta dall’uso della flor, quel velo di lieviti e batteri che protegge il vino e gli dona grande ricchezza ossidative, la cui conoscenza è stata qui portata ancora dai fenici, insieme all’uso del pesce essiccato, solo uno dei tanti esempi delle isole come crocevia di culture perché in tanti qui sono approdati e hanno portato i propri influssi.
Sono influssi che dall’estero vanno verso la Sardegna, ma mai dalla Sardegna verso l’esterno. I fenici portano la conoscenza della flor, gli spagnoli portano abitudini agricole e i cognomi.

“Il sardo non è un navigatore. Abbiamo paura dell’acqua. Sarà la timidezza, forse una forma di difesa, soprattutto culturale. La costa era un muro naturale che non veniva valicato. Tutto ciò che è arrivato dall’esterno però ci ha portato una grande ricchezza, che oggi stentiamo a esprimere e comunicare”.

D’altra parte la Sardegna è poco popolosa, e anche l’imprenditoria, con rare eccezioni, è limitata, il territorio poco valorizzato, “c’è una mancanza anche di intreccio di culture”.
È per questo che la cosa che Piero più ama di Quartomoro è proprio intrecciare persone, progetti, culture: è un “laboratorio di idee, di ricerca, che permette di accumulare qualche consapevolezza, sperimentando per esempio anche nuovi contenitori come la terracotta, con un’anfora, o il gres porcellanato, materiali moderni, che già in tanti usano con soddisfazione. Noi sperimentiamo, continuiamo a giocare, a guardare al futuro ma con rispetto della tradizione, della matrice viticola che andremo sempre più a fissare e approfondire in maniera consapevole”.
Le contaminazioni possono arrivare a tutti i livelli, anche attraverso i vitigni: Piero ci racconta che in Sardegna ci sono molte varietà dure, “soprattutto per l’aspetto polifenolico, con tannini ruvidi, portati a una durata nel tempo”. Eppure tante di queste varietà, dal Cagnulari nel sassarese, al Bovale Piccolo, in Sardegna hanno trovato interpretazioni da pasto, perché la Sardegna non ha mai avuto un ceto alto, ma sempre un ampia classe contadina, che non ha mai avuto la visione del vino come qualcosa da attendere e conservare, ma come qualcosa da consumare subito. Ancora una volta, del vino come nutrimento.

4.

Uno sguardo al futuro

Già, il futuro, una parola non sempre facile da scorgere: l’enologia della Sardegna ha visto la produzione sfiorare tre milioni di ettolitri, ormai ridotti a un quinto. Un patrimonio smarrito a causa sempre di scelte “degli uomini e delle donne, ma soprattutto degli uomini: l’enologia è stata ‘troppo uomo’, e infatti anche in Sardegna ora sta crescendo grazie alle donne”.
In queste terre, e soprattutto questi terreni, ricchi di ossidiana e di grande mineralità, il vulcano è stato ed è fondamentale. E a Piero “piacerebbe far diventare la Sardegna una sorta di vulcano viticolo: ancora oggi è troppo timida, non si esprime come dovrebbe, vorrei diventasse terra di conquista anche per gli imprenditori. Occorre una rete da poter tessere, come un intreccio, un orriù. Ci arriveremo, credo molto nei giovani, venti-venticinquenni con una mentalità più pulita, meno legata a vecchie abitudini culturali”.
“Quello che è cambiato forse è la sensibilità, ci siamo ascoltati un po’ di più l’un l’altro, portando avanti un approccio contadino, di sostenibilità, di equilibrio, di armonia”. Quell’armonia e quell’ascolto che, non solo nel mondo agricolo, portano all’eccellenza e alla ricchezza. O, forse, anche solo allo stare meglio.